Il terrore corre sul filo (1948)

Un thriller quasi perfetto, tratto da un radiodramma di Lucille Fletcher, da lei stesso sceneggiato. E’ chiaro che l’aiuto della macchina da presa contribuisce non poco ad aumentare l’atmosfera tesa di una storia nata per la radio, che conteneva già diversi elementi drammatici, ma tutti concentrati nella narrazione e nei dialoghi. Il regista, infatti, grazie alle immagini riesce a catturare molto bene il senso di solitudine e desolazione che segna la vita dei personaggi e confeziona un film in cui la suspense è tangibile, pur essendo quasi del tutto privo di azione, confinato nel ristretto spazio di una camera da letto, come la sua protagonista.

Lena Stevenson è una ricca ereditiera invalida, costretta a letto, che comunica con il mondo esterno attraverso il telefono. Una sera, per un errore del centralino, ascolta una conversazione telefonica tra due uomini che tramano per uccidere, quella stessa sera, una donna sola in casa. Da quel momento Lena cercherà di contattare prima la centralinista, poi la polizia, per riferire quello che ha sentito, ma nessuno le crede. Dopo aver cercato di mettersi in contatto col marito, che non risponde al telefono, farà tutta una serie di telefonate attraverso le quali scoprirà cose sempre più inquietanti sul coniuge e sulla sua posizione all’interno dell’azienda farmaceutica in cui l’uomo lavora, alle dipendenze del suocero.

La magia del film è di riuscire a presentarci i vari personaggi sempre attraverso le telefonate, con un uso mirato di flashback nei quali lo spettatore viene informato degli aspetti salienti della situazione. Così scopriamo che il marito della donna si era sentito imprigionato dal suocero, e per guadagnarsi l’indipendenza ha avviato un’attività di contrabbando di droga, derubando l’azienda di famiglia. Man mano che il film procede, la tensione aumenta sempre più, finché Lena non riesce finalmente a mettersi in contatto col marito. E qui si raggiunge il climax, con un colpo di scena che ovviamente non rivelerò, che riannoda tutti i fili pendenti e porta il film alla sua tragica conclusione.

La battuta finale è quella che dà il titolo originale al film: Sorry, wrong number. Ma trovo che il titolo italiano una volta tanto sia appropriato. Come ne La fiamma del peccato, anche qui dominano i flashback, per suggerire che i personaggi non hanno scampo dal loro destino. Un film spettacolare, dall’inizio fino all’ultimo fotogramma, retto principalmente dall’interpretazione di Barbara Stanwyck, che rende benissimo il suo personaggio di una donna in condizione svantaggiata, ma che rimane comunque forte, una donna che non deve essere sottovalutata e che non si arrende facilmente neppure quando tutto è perduto.

Un personaggio energico e piena di risorse, anche se fisicamente debole. Una donna che ha rubato il marito a un’amica e lo ha sposato contro il volere del padre, e che dà ordini dal suo letto col tono di chi è abituato a essere obbedito. Un’ereditiera viziata, arrogante e ricca, ma, in definitiva, impotente. Col progredire della storia la simpatia dello spettatore cresce per questa donna antipatica e viziata, che vediamo via via diventare sempre più fragile e vulnerabile. E la bravura della Stanwyck si vede proprio nelle sfumature, nel suo progressivo passaggio dal tono altero e sicuro di sé delle sequenze iniziali, a quello terrorizzato e supplichevole del finale, quando gradatamente scopre verità sempre più scomode e avviene la sua definitiva trasformazione in vittima predestinata.

Accanto a lei, anche se quasi sempre attraverso il filo del telefono, Burt Lancaster interpreta uno degli uomini più deboli della sua carriera, vittima della sua ambizione e dell’avidità, che lo porta a commettere una serie di errori fatali, fino a un pentimento tardivo ormai inutile. Molto bello anche il ruolo di Ed Begley, l’unica immagine presente nella camera da letto della protagonista, in una foto incorniciata da cui osserva la scena; è in qualche modo l’equivalente della figura materna in molti dei film di Hitchcock.

E il regista britannico apprezzò molto il film, citandolo come una delle migliori interpretazioni della Stanwyck. Chissà se è stato un caso che sei anni dopo, ne Il delitto perfetto, Hitchcock abbia utilizzato il telefono per girare una delle sequenze più terrificanti, utilizzando la metafora del telefono anche nel titolo originale, Dial M for murder.

Al di là dell’interpretazione degli attori, molte scene sono memorabili anche solo per le loro qualità visive, grazie alla fotografia di Sol Polito, dalla pioggia che scende copiosa nella strada buia, alla spiaggia solitaria di Staten Island, fino alla scena culminante dell’omicidio mostrato con un’ombra minacciosa, che sale la scala lunga e tortuosa fino alla camera da letto, dove la vittima attende il suo destino. C’è una sensazione generale di tristezza che pervade questo film, in gran parte notturno.

Certamente la sceneggiatura della Fletcher ha saputo sfruttare al massimo la trasposizione del suo dramma radiofonico sullo schermo, non solo attraverso i numerosi flashback, ma anche con la rappresentazione degli ambienti in cui la scena si svolge. Ma protagonista assoluta e vero perno del dramma rimane l’espressività ineguagliabile della Stanwyck, che usa gesti e sguardi per accompagnare le parole e riempire i silenzi. Un esercizio di stile che le è valsa la nomination all’Oscar, purtroppo non concretizzata.

16 pensieri riguardo “Il terrore corre sul filo (1948)

  1. Sai, pensavo che quello che fai sul tuo blog è un lavoro molto utile: raccontare così bene trame di vecchi film film quasi sconosciuti oggi ai più è cosa che rende onore e memoria al cinema. Ti ringrazio di questo.
    Per quanto riguarda questo film è davvero bello. Non aggiungo altro visto che lo hai già fatto bene tu 🙂

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    1. Sono io che ti ringrazio per le tue belle parole. In realtà la mia idea era più che altro far conoscere anche queste vecchie pellicole, che ancora sanno dare tante emozioni a chi sa coglierle. E da quello che leggo nei commenti, per fortuna, piacciono ancora a molti.

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