La giusta causa (1995)

Con il ritmo e lo stile di un dramma giudiziario, il film presenta una trama brillantemente subdola, ricca di tranelli e colpi di scena che regalano continuamente nuove svolte alla vicenda. E quando è sul punto di raggiungere il climax, cambia improvvisamente tono e struttura, trasformando la storia in un rocambolesco thriller d’azione. Un film sicuramente valido, soprattutto per le interpretazioni di tutto il cast, ma un po’ troppo votato al colpo di scena: sembra quasi che inizialmente giochi con una serie di stereotipi, per poi rovesciarli ad uno ad uno, sovvertendo le premesse.

Una ragazzina di undici anni viene trovata violentata e uccisa in Florida, e un giovane afroamericano, Bobby Ferguson, viene immediatamente arrestato e accusato del crimine. Grazie a una confessione brutalmente estorta dalla polizia locale, viene condannato e imprigionato. Otto anni dopo il ragazzo siede nel braccio della morte in attesa della sua condanna definitiva. L’avvocato Paul Armstrong, che non esercita da 25 anni, ma è noto nell’ambiente per la sua contrarietà alla pena di morte, viene contattato dalla nonna del condannato perché ne assuma la difesa. Dopo aver letto la lettera con cui il ragazzo gli chiede aiuto, proclamandosi innocente, Armstrong si convince ad accettare il caso.

Si reca quindi in Florida e inizia a indagare, convincendosi che Bobby sia caduto vittima delle azioni di un agente di polizia troppo zelante e violento. Fin qui sembra tutto incredibilmente facile e prevedibile, ma da qui in poi il film prende una serie di svolte un po’ troppo artificiose, in cui la logica viene asservita al desiderio di sorprendere a tutti i costi. Compare un nuovo inquietante personaggio, che accentra immediatamente su di sé tutta l’attenzione, sviandola temporaneamente da Ferguson, e dando inizio a una seconda parte del film, che sembra quasi una storia a sé, anche se legata comunque al delitto iniziale. E proprio quando sembra che le cose si siano ben concluse, la trama fa una nuova sterzata ed emerge un inquietante legame personale tra Bobby e la moglie di Armstrong. Questa ennesima svolta porta il film a una conclusione che forse potrebbe essere un colpo di scena, ma solo a patto che non abbiate mai visto Cape fear.

Pur non essendo privo di difetti, il film è un thriller accattivante, che riesce a tenere lo spettatore nel dubbio fin quasi alla fine, anche grazie ai continui cambiamenti di rotta che non fanno capire in che direzione intenda andare. La storia offre molti temi scottanti, tra cui il razzismo, la pena di morte e la corruzione della polizia. Peccato che li perda per strada, nel tentativo di sorprendere a tutti i costi lo spettatore; dopo aver catturato efficacemente la sua attenzione con l’intenso atto di apertura, man mano che il film procede la storia diventa sempre più tortuosa e intricata, fino a culminare in un finale a dir poco bizzarro.

Un discorso a parte merita il sotto testo politico. All’inizio il film sembra essere contrario alla pena di morte, esattamente come il professor Armstrong, ma poi le sue posizioni liberali vengono messe in discussione quando gli viene chiesto se non vorrebbe vendetta nel caso che sua moglie o sua figlia fossero uccise. Alla fine il film lo mette di fronte alla scelta, e lui è costretto a prendere posizione e a uccidere per difenderle. Senza contare tutto il resto che tralascio per non rovinare la sorpresa. In sostanza l’intero film sembra essere una dichiarazione a favore della pena di morte, scritta nei termini più crudi possibili. E pare anche giustificare in qualche modo la brutalità della polizia. È come se il regista volesse dirci che le nozioni accademiche liberali sono molto belle in teoria, ma la realtà è tutt’altra cosa. Non so se il messaggio volesse essere questo, ma è quello che arriva allo spettatore.

Dove invece il film non sbaglia è nella scelta del cast. Sean Connery ha il ruolo centrale, ma il suo personaggio è tutto sommato unidimensionale, senza grandi sfumature; ciò nonostante lo interpreta con la consueta classe e con una certa cupezza, dovuta forse all’età. Anche Blair Underwood è più che credibile nei panni della vittima di una giustizia a senso unico, ma chi eccelle davvero, rubando letteralmente ogni scena in cui compare è Ed Harris, in un ruolo diabolico, per lui inusuale e forse un po’ influenzato dalla visione de Il silenzio degli innocenti. Ma il suo serial killer è solo vagamente ispirato ad Hannibal Lecter, in realtà è molto più perverso e di certo meno controllato. Harris ci regala una delle sue interpretazioni più sfumate e intense: le scene in cui compare insieme a Connery sono decisamente le più belle e inquietanti di tutto il film, ed è uno scontro di bravura senza vincitori.

Laurence Fishburne è perfetto nel ruolo del poliziotto violento, che sembra accanirsi sui neri ancora peggio dei bianchi, convinto com’è che la sua brutalità sia necessaria per inchiodare il colpevole. Il film riunisce un gruppo di interpreti molto convincenti, che comprende anche Kate Capshaw nel ruolo della moglie di Armstrong e Ned Beatty nei panni del primo avvocato di Bobby, responsabile in parte della sua condanna. Nel ruolo della giovanissima figlia c’è una deliziosa Scarlett Johansson. Tutti al servizio di una storia che sacrifica la credibilità a favore della suspense, in cui la tensione è sempre presente ma, una volta arrivati in fondo, si ha comunque la sensazione di un potenziale in qualche modo insoddisfatto.

Nonostante i suoi difetti, il film merita almeno una visione per il ritratto accurato dei personaggi e gli assi che riesce a tirar fuori dalla manica: un assemblaggio a tutto tondo, piacevolmente ricco di sorprese. Se vi piacciono i colpi di scena, sicuramente lo apprezzerete, sorvolando sui suoi punti deboli.

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