I gangsters (1946)

Robert Siodmak forse non è famoso come Fritz Lang, Billy Wilder o Preminger, ma la sua filmografia non teme il confronto con quelle dei grandi. In questa pellicola, considerata da molti il suo capolavoro, si rivela un maestro dell’inquietudine, capace di creare atmosfere misteriose che raggiungono lo spettatore e lo coinvolgono profondamente. I gangsters è anche un singolare esperimento di sceneggiatura, perché prende ispirazione da un racconto breve di Hemingway, espandendolo in un noir sorprendente, attraverso la creazione di tutti i retroscena che mancano alla storia. Lo scrittore americano, fedele al suo stile minimalista, conferiva spesso alle sue storie un caratteristico aspetto incompiuto, lasciando molto all’immaginazione del lettore. In questo caso, il breve racconto di Hemingway fornisce l’incipit per il film, che da lì prende vita attraverso la struttura del flashback, inventando di fatto tutto quello che il libro non dice.

Curiosamente, il momento forse più ricordato del film è proprio l’inizio. Due uomini arrivano in una sperduta cittadina del New Jersey, e si fermano ad una tavola calda, chiedendo di qualcuno soprannominato lo svedese. In realtà si tratta di due sicari che vengono da Chicago per ucciderlo, per ragioni che, al momento, non conosciamo. I primi dieci minuti, in cui i sicari minacciano i dipendenti del locale, sono animati da una magistrale tensione crescente, che si accumula fino a diventare pura angoscia.

Alla fine i due killer decidono di lasciare il locale, mentre qualcuno corre a casa dello svedese per avvertirlo. Ma questi sembra rassegnato al suo destino, dice che è stanco di scappare. Quando finalmente i sicari lo trovano, lo uccidono senza che si difenda. Perché? Cosa ha fatto in passato quest’uomo per avere due killer alle calcagna? E perché si è lasciato uccidere senza fuggire? Nel racconto a cui si ispira il film non si dice altro, la storia finisce così e tutto è lasciato all’immaginazione del lettore.

In pratica il film inizia dalla fine, proprio come La fiamma del peccato, altro esempio di grande noir di questo periodo: attraverso i flashback, Siodmak ci racconta il passato del protagonista, la sua evoluzione e cosa lo ha portato fino al finale che già conosciamo. Dopo l’uccisione dello svedese, si scopre che la sua vita era assicurata e quindi un investigatore della compagnia assicurativa viene incaricato di indagare. Il detective è un tipo tenace e non ha intenzione di fermarsi finché non troverà i motivi per cui l’uomo è stato assassinato. Con la collaborazione di un poliziotto che era un buon amico del morto, arriverà a incastrare i colpevoli.

L’investigatore parte dall’unico indizio in suo possesso, la donna a cui era intestata l’assicurazione sulla vita del morto, e da questa donna scoprirà via via particolari importanti del passato dello svedese e incontrerà altre persone che possono fornirgli informazioni utili. Questa struttura ricorda in realtà anche Quarto potere, che inizia con la morte del protagonista e prosegue con un puzzle composto dalle diverse testimonianze di chi lo ha conosciuto.

Questa configurazione, sebbene alquanto macchinosa, in realtà conferisce al film un ulteriore fascino: ogni flashback è di per sé una piccola storia interessante e, come spettatori, siamo chiamati a sistemare nel modo corretto tutti i pezzi del puzzle, che non ci vengono forniti in ordine cronologico. Essendo un noir, i suoi personaggi sono piuttosto complessi e dalla morale spesso discutibile, ma tre sono quelli che spiccano nella storia: Pete Lunn, lo svedese assassinato, Kitty Collins, una famigerata femme fatale di cui l’uomo era innamorato, e Jim Reardon, l’investigatore che porta avanti le indagini e la storia.

La trama è ricca di colpi di scena, tradimenti e inganni: i personaggi sono enigmatici ma a modo loro anche realistici, tutti, buoni e cattivi, hanno il loro momento di gloria e nessuno prevale sugli altri. Per Burt Lancaster questo film è stato un trampolino di lancio, un sorprendente debutto in cui ha potuto mostrare molte di quelle qualità che avrebbe poi sviluppato nel corso della sua carriera. Grazie a una presenza fisica notevole, ma non priva di espressività, Lancaster disegna il personaggio dello svedese come un uomo tormentato, dominato dall’inquietante presenza di Kitty, donna tanto bella quanto pericolosa.

Ava Gardner ricopre il ruolo di femme fatale, così caratteristico del genere noir, mostrando un’intelligenza sensuale che fa innamorare non solo il povero svedese, ma anche lo spettatore. È una donna forte, che usa trucchi per sopravvivere in un mondo tutt’altro che facile. Non riesce ad avere lo spessore di Barbara Stanwyck ne La fiamma del peccato, ma solo perché la sceneggiatura non le dà sufficiente spazio; forse il suo personaggio avrebbe potuto migliorare il film, se fosse stato più approfondito.

Interessanti anche Edmond O’Brien nel ruolo dell’investigatore, e Sam Levene nei panni del poliziotto amico dello svedese. Sono loro il motore delle indagini e, pur mancando del magnetismo di Lancaster e della personalità della Gardner, incarnano con la grinta necessaria la figura dei detective, fondamentali in qualunque noir.

Ma il talento degli attori non sarebbe nulla senza la direzione di Siodmak e le sue scelte estetiche: l’atmosfera cupa e il forte contrasto di luci e ombre, eredità dell’espressionismo tedesco, esaltano il carico della tensione, amalgamando alla perfezione tutti gli ingredienti per un noir avvincente, che riesce ancora oggi ad affascinare gli appassionati del genere. Un film che dopo un incipit straordinario riesce a tenere alta l’attenzione dello spettatore fino alla sua conclusione, senza un solo momento di noia.

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