Agnese di Dio (1985)

Un dramma avvincente e un mistero intrigante che si fondono insieme, a formare un film che offre più di uno spunto di riflessione e tre eccellenti interpretazioni. L’aspetto più suggestivo della pellicola è che la storia parte come indagine su un crimine, ma più si procede, più sembra che la soluzione del crimine non sia il punto centrale, mentre si aggiungono argomenti filosofici e teologici che poco hanno a che fare con la realtà terribile del delitto.

Siamo in un convento di clausura, dove una notte la giovane suor Agnese viene trovata dalle consorelle in un mare di sangue, mentre nel cestino della carta straccia viene rinvenuto il corpicino senza vita di un neonato, evidentemente strangolato col cordone ombelicale. Risulta chiaro che il bambino è stato partorito da suor Agnese, ma non è altrettanto sicuro che l’abbia strangolato lei. A complicare il mistero c’è l’atteggiamento della giovane suora, che nega sia la nascita che il concepimento del bambino, dice di non averlo visto e di non sapere neppure come nascono i bambini.

Viene inviata al convento una psichiatra per stabilire se suor Agnese sia capace di intendere e di volere, e quindi in grado di affrontare un processo in tribunale. Fin dal suo arrivo, si scontra con madre Miriam, che dirige il convento, e che sembra soprattutto preoccupata di proteggere la sensibilità estrema di suor Agnese; la psichiatra, invece, crede che la Madre superiora voglia solo insabbiare lo scandalo. Tra le due donne, profondamente diverse, lo scontro è immediato e senza esclusione di colpi, anche perché sono entrambe molto intelligenti e caratterialmente forti: Martha, la psichiatra, è una ex credente che ha abbandonato la fede, e vede la chiesa come un’istituzione ostinata e antica che ha ormai perso il contatto con i fedeli e con la realtà; madre Miriam, molto fedele ai principi della Chiesa ma non una santa, teme che un esame psichiatrico della mente semplice e infantile di Agnese possa risultare un’ulteriore violenza sulla sua anima innocente.

Dopo un primo colloquio con Agnese, Martha si rende conto di avere a che fare con un’adulta che non è effettivamente cresciuta, che non sa nulla del mondo e ha una visione estatica della realtà, solitamente riservata ai santi. Ma nonostante questo, si rifiuta anche solo di considerare la possibilità, prospettata da madre Miriam, che il bambino possa essere frutto di un miracolo. Così il tema centrale del film si sposta dall’omicidio del neonato all’esistenza dei miracoli, anche perché l’indagine sull’identità del padre e sulle possibilità di un concepimento “naturale” gira freneticamente a vuoto e sembra non portare da nessuna parte.

Potrebbe sembrare semplicemente uno scontro tra ragione e fede, ma in realtà, man mano che il film procede e i personaggi si disvelano, scopriamo che c’è altro in gioco. Le due protagoniste, che inizialmente sembravano incarnare stereotipi abbastanza banali, si collocano invece abbastanza fuori dagli schemi. Martha nasconde un’avversione profonda per la chiesa cattolica, per vicende personali legate alla sua famiglia e alla sua infanzia, tuttavia ha una posizione più da agnostica che da atea, e non sembra cercare una scusa per demolire la chiesa a tutti i costi, mentre madre Miriam non ha tanto a cuore gli interessi dell’istituzione cattolica, quanto quelli di suor Agnese, che ritiene “toccata” da Dio, e vede nella giovane suora quella purezza della fede che lei non ha più, o forse non ha mai avuto. Dopo lo scontro iniziale, le due donne sembrano avvicinarsi nel tentativo di fare quello che è meglio per Agnese.

Il giro di boa nel loro rapporto, che cambia le dinamiche tra le due donne, è una scena in cui si trovano da sole nel giardino del convento: Martha, che fuma nervosamente una sigaretta dietro l’altra, ne offre una a madre Miriam, dopo aver scoperto che anche lei fumava prima di indossare la tonaca. Mentre si rilassano fumando, abbattono i rispettivi muri difensivi dietro ai quali si erano trincerate, e chiacchierano semplicemente come due donne, spogliandosi dei propri ruoli, e scherzando amabilmente su quali sigarette avrebbero fumato Gesù e i suoi discepoli. E’ una delle sequenze più belle e realistiche di tutto il film, e aleggerisce con un tocco di humour il lato più tragico della storia.

Da questo momento il film prende una svolta decisiva, perché le due donne si alleano tacitamente per il bene di Agnese. Nessuna delle due, però, è pronta ad affrontare il risultato della seduta di ipnosi a cui Martha decide di sottoporre Agnese. Quando la giovane suora rivivrà la sera della morte del bambino, sia la tenace razionalità della psichiatra, che la fede vacillante di madre Miriam saranno scosse.

Quello che più esaspera di questa storia è che tutto viene lasciato all’interpretazione dello spettatore, con un finale aperto che esonera il regista da ogni responsabilità. Il mistero si dipana bene e incuriosisce, offre anche più di un colpo di scena, ma la conclusione ambigua è un po’ deludente, anche se propone alcuni buoni spunti e termina con una prospettiva interessante. Tra i motivi per vederlo, c’è la lucidità con cui trasmette in modo molto intenso e coinvolgente l’ambiguità dell’atteggiamento contemporaneo verso i miracoli: l’uomo moderno sembra averne un gran desiderio, ma non può fare a meno di essere scettico. Quello che manca, invece, è un approfondimento della storia personale sia di Martha che di madre Miriam: il film accenna al loro passato, ma in modo fugace e superficiale.

Dal punto di vista strettamente cinematografico, il regista Norman Jewison riesce a tirar fuori una straordinaria interpretazione da Meg Tilly nel ruolo principale e due eccellenti ritratti umani da Jane Fonda e Anne Bancroft. Il viso angelico di Tilly e la sua voce infantile sono perfetti per il ruolo, e la sua fede assolutamente imperturbabile è molto convincente; Bancroft e Fonda le girano intorno mettendo in scena un duello che in sostanza sembra aver poco a che fare con lei. E mentre duellano, finiscono per svelare ognuna le proprie insicurezze, non potendo fare altro, alla fine, che inchinarsi entrambe di fronte all’innocenza di Agnese.

Il direttore della fotografia Sven Nykvist crea la giusta atmosfera visiva, catturando l’aspetto severo nel convento e nel paesaggio circostante, che sembra riecheggiare il vuoto spirituale della maggior parte dei personaggi. Non ricordo chi ha detto che un buon film non deve dare risposte, ma sollevare domande: in questo senso Agnese di Dio è perfetto.

21 pensieri riguardo “Agnese di Dio (1985)

  1. Hai ricevuto la notifica del mio commento sull’articolo che parlava di complottismo? Risulto sempre anonima, mi devo approvare da sola e non so neanche se mi pubblicano… (un vero casino: io mando screenshot segnati con il marker colorato per evidenziare i problemi che ho e rispondono in maniera evasiva, parziale e pare che non capiscano niente)

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  2. Non l’ho mai visto. Credevo l’avrei respinto, visti i temi assai sensibili che mi coinvolgono molto, invece leggendoti ho pensato che mi piacerebbe recuperarlo.
    Ora, però, sorge un piccolo problema: coule tollera poco i finali aperti! Ed in un caso del genere anch’io preferirei meno incertezza, ma pazienza.

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    1. Anche io non amo, in generale, i finali aperti. Preferisco un brutto finale ma che sia chiuso. Qui diciamo che alcuni punti fermi ci sono, per cui si arriva a qualche risposta definitiva per quanto attiene al crimine di partenza, altri punti rimangono necessariamente sfumati.

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