I gigli del campo (1963)

Un film semplice, che probabilmente non sarebbe passato alla storia se non avesse consegnato a Sidney Poitier il suo primo Oscar, il secondo ricevuto da un attore afroamericano dopo quello assegnato a Hattie McDaniel per Via col vento. Più significativo, perché Hattie era stata scelta come miglior attrice non protagonista, mentre Sidney qui è il protagonista assoluto, e come tale viene premiato, vincendo anche il Golden Globe. Anzi, è l’unico nome di rilievo nel cast, e il film è quasi interamente costruito su di lui. Sicuramente non è stato il suo ruolo più impegnativo, ma di certo è uno dei più affascinanti.

Homer Smith è uno spirito libero che attraversa gli Stati Uniti vivendo nella sua auto, e fermandosi ogni tanto, lungo la strada, per fare qualche lavoretto occasionale che gli permetta di mangiare. Un giorno è costretto a fermarsi nel deserto dell’Arizona, in una fattoria remota e fatiscente, per far raffreddare il motore dell’auto, che si è surriscaldato. Nella fattoria scopre che si sono stabilite cinque suore, emigrate dall’Europa per sfuggire al nazismo. Parlano a malapena inglese e sono molto disorganizzate, ma la Madre Superiora lo convince a fare alcuni lavoretti per la fattoria in cambio di vitto e alloggio.

Homer accetta, convinto di essere anche pagato per il suo lavoro, con l’intenzione di mettersi in viaggio una volta che avrà ottenuto i suoi soldi. Le suore, invece, sono convinte che Homer sia un dono inviato da Dio per aiutarle in questo momento di bisogno: la piccola comunità del paese, infatti, è composta in prevalenza da latinoamericani ed è molto povera, tanto che non ha nemmeno una propria cappella dove poter celebrare la messa domenicale. Le suore, la Madre Superiora in testa, vorrebbero che Homer la costruisse per loro, pur ammettendo candidamente di non avere i soldi né per pagarlo, né per acquistare i materiali necessari. 

Inizialmente Homer non ci pensa proprio a lavorare senza neppure essere pagato, poi gradatamente costruisce un rapporto di solidarietà e amicizia sia con le suore che con la comunità, e finisce per mettere da parte il suo orgoglio. Non serve dire che alla fine le suore avranno la loro chiesa, e nel frattempo Homer gli avrà insegnato pure l’inglese. Ma anche lui non se ne andrà a mani vuote.

Quando è uscito, il film è stato visto come una pellicola sensazionale: Homer, infatti, non solo è un uomo di colore, ma è anche di religione battista, e porta aiuto a una comunità cattolica, gestita da suore bianche. La comunità stessa è rivoluzionaria: messicani insieme a suore rifugiate dall’Europa dell’est. Eppure il razzismo, che ha avuto spesso un ruolo centrale nei film di Poitier, qui è solo un elemento collaterale. Certo il fatto che Homer sia indotto a lavorare senza un compenso, può rimandare al tema della schiavitù, e l’eccessiva severità della Madre Superiora che spinge Homer a chiamarla “Hitler”, ci ricorda tristemente gli orrori del nazismo.

Ma il tema principale del film è quanto le persone apparentemente diverse possono scoprire di avere in comune, quando abbassano le difese e cercano di conoscersi reciprocamente: Homer trasporta le suore con la sua macchina, e intanto insegna loro l’inglese e i canti gospel della sua infanzia. Sono momenti come questi, in cui i personaggi scoprono di essere meno diversi l’uno dall’altro di quanto pensassero inizialmente, che sono particolarmente intensi e danno al film una positività edificante.

Indifferente alla loro missione, all’inizio Homer è interessato solo a guadagnare la sua paga. Ma gradatamente finirà per essere trasformato dalla semplicità della predicazione delle suore. L’amicizia tra questi due opposti, un uomo di colore che cerca il riscatto e le suore che scappano dalla persecuzione politica, è affascinante da osservare. Sotto la spavalderia disinvolta e la candida irriverenza di Poitier, si avverte il forte bisogno di riaffermare il suo orgoglio. A poco a poco, tra questi due elementi così diversi, si sviluppa un’amicizia genuina, basata sulla condivisione delle poche cose che hanno in comune, tra canti cattolici e inni gospel. Ma nel loro modo di affrontare la diversità, c’è soprattutto tanto rispetto.

Non ci si deve aspettare, però, una particolare sottigliezza o un linguaggio metaforico molto stratificato: è semplicemente un film affascinante e ottimista sul potere che si sprigiona quando superiamo le reciproche differenze e i pregiudizi, un film di buoni sentimenti che parla direttamente al cuore. E lo fa con una discreta ironia, nei continui battibecchi tra Homer e la Superiora, nei quali non sorprende tanto la naturalezza di Poitier quanto la spontaneità dell’attrice austriaca Lilia Skala che, non a caso, per questa interpretazione è stata candidata all’Oscar.

I botta e risposta tra i due attori conferiscono al film un umorismo delizioso, che caratterizza un po’ tutta la sceneggiatura. Da uno di questi rapidi susseguirsi di battute deriva il titolo del film: quando Homer reclama di essere pagato, citando un passo del Vangelo che dice “L’operaio è degno della sua mercede”, la Superiora risponde con un altro passo che recita “Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, in tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”.

La forza di una sceneggiatura intelligente e ben scritta, unita alla splendida fotografia dell’acclamato Ernest Haller, già premio Oscar con Via col vento e Che fine ha fatto Baby Jane?, oltre alla recitazione carismatica di Poitier, sono ottimi motivi per recuperare questo piccolo gioiello prima che se ne perda la memoria. E magari per coglierne il messaggio, semplice ma prezioso, di quanto siano importanti il dialogo e il rispetto nella comprensione dell’altro, soprattutto se diverso da noi.

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