Prisoners (2013)

Diciamo subito che non è un film facile, e non è sicuramente un film per tutti. Le tematiche affrontate sono angoscianti, e i risvolti della vicenda rasentano in alcuni punti l’orrore puro. Ma ha un pregio a mio parere grandissimo, rispetto ad altri film che giocano con la violenza, ed è quello di suscitare emozioni profonde e inaspettate nello spettatore, una sorta di reazione istintiva e violenta contro la violenza stessa. L’atmosfera cupa e invernale di cui è intriso questo film è indubbiamente pesante, così come l’argomento della sparizione di due bambine. Ma se questo non vi crea problemi, allora vi aspetta un vero gioiello.

La storia si apre in maniera quasi banale, con due famiglie riunite per festeggiare il Ringraziamento, in un’atmosfera volutamente serena e spensierata. Improvvisamente il dramma più cupo si abbatte sulle loro vite, con la sparizione delle due figliolette più piccole, apparentemente rapite. I sospetti si concentrano subito su un balordo ritardato che era stato visto nelle vicinanze della casa a bordo di un camper, poi sparito.

Da qui inizia un incubo inimmaginabile per tutti i protagonisti della vicenda, prigionieri, come dice il titolo, molto più delle due bambine rapite. Prigionieri della paura, dell’impotenza, della rabbia, dell’odio, dell’impossibilità di avere giustizia, dell’incapacità di ragionare e comprendere. Verranno alla luce vecchi casi e morbosità sepolte, e la soluzione finale avrà il volto malato della follia.

C’è molto di più, ed è quello che differenzia questa pellicola da tante altre che in vario modo hanno parlato di rapimenti, di violenza sui più piccoli e di malattia mentale. C’è l’orrore della follia, ma anche l’orrore della cosiddetta normalità, della giustizia fai-da-te, che pretende di sostituirsi ad una giustizia altrimenti non ottenibile. C’è la tortura psicologica di chi aspetta senza poter fare nulla, e c’è la tortura fisica, quasi insostenibile anche per chi guarda.

Non c’è la solita banale volontà di fare del dolore un facile spettacolo, c’è invece un tentativo di introspezione profonda degli aspetti più umani del dramma. La fotografia di un paesaggio plumbeo e battuto da una pioggia incessante rende ancora più cupo il susseguirsi lento dei minuti e delle decisioni dalle quali può dipendere la sopravvivenza delle due vittime.

Il risultato è un thriller psicologico di grandissima intensità, dove la tensione rimane sempre alta, e nonostante la durata insolitamente lunga di quasi due ore e mezza, il film scorre senza momenti di stanchezza, fino all’epilogo che ovviamente non va svelato. La vicenda sembra seguire un corso prevedibile, ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Quando sembra che stia per arrivare la conclusione e tutto sembra ormai chiaro, il regista riesce a risvegliare la nostra attenzione grazie a una serie di magistrali colpi di scena. E ci regala anche una piccola soddisfazione, perché lo spettatore attento riuscirà ad arrivare alla soluzione ancor prima dei protagonisti.

Meravigliosamente scolpiti i due personaggi di maggior risalto, il detective Loki, interpretato da un Jake Gyllenhaal insolitamente maturo, e Keller Dover, il padre di una delle due ragazzine rapite, che ha il volto e la fisicità di Hugh Jackman. Mentre il primo, esperto di rapimenti, procede cauto e un po’ indeciso nelle ricerche, il secondo, guidato dalla cieca furia paterna, avanza sicuro e determinato nelle sue certezze, mettendo a tacere dubbi e coscienza.

Qualche punto in più sicuramente per Gyllenhaal, rinchiuso nella sua rassegnazione malinconica di fronte alle miserie umane, mentre Jackman ricorda un po’ troppo da vicino Wolverine, anche se, come genitori, sentiamo la sua impotenza e la sua rabbia, comprendendo il suo comportamento borderline.

Di rilievo anche l’interpretazione di Paul Dano nel ruolo di Alex, il sospettato numero uno, che ha la sua buona dose di segreti e di orrori da rivelare, ma solo al momento giusto, ribaltando di colpo la prospettiva di tutta la vicenda. L’attore riesce a rappresentare in maniera vivida l’immagine di un uomo fuori dal tempo, un disadattato con il quoziente intellettivo di un bambino. Perfetto per essere facilmente sospettabile, ma anche per rivelarsi qualcosa di completamente diverso. Il suo inserimento nel cast è stato un colpo da maestro.

Dal lavoro con la macchina da presa alla scelta della musica, il regista Denis Villeneuve ha elaborato tutto nei minimi dettagli, mettendo insieme un cast variegato e perfettamente amalgamato, in cui anche gli interpreti secondari sanno reggere il loro ruolo in modo brillante, contribuendo al risultato anche solo con il linguaggio del corpo.

Nel complesso è un film che va vissuto come un’esperienza di totale immedesimazione, per chi ama esplorare le emozioni più profonde e cercare di comprendere la realtà oltre le apparenze. Un’ultima cosa. Dopo aver sapientemente ribaltato più volte la storia, con un discreto numero di colpi di scena, il finale del film riesce ancora a sorprenderci negli ultimi fotogrammi. E lo fa con classe.

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29 pensieri riguardo “Prisoners (2013)

  1. Villeneuve nei suoi primi film ci ha regalato dei film incredibili ma anche traumatici. Polytechnique è uno di questi e mi ha lasciato sconvolto così come ha fatto Prisoners. C’è qualcuno che lo definisce un regista “freddo” ma onestamente non so perché lo dicano. Le emozioni che fa provare sono veramente forti.

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  2. Ho vaghi ricordi di essere rimasto deluso dal finale, ma in realtà non ricordo neanche quale fosse, il finale. Invece ricordo una grande gara di bravura fra Hugh e Jake, due attori molto diversi ma entrambi con la grande voglia di sporcarsi e dimostrare che non sono solo degli “intrattenitori” ma sono capaci di scavare e trovare dentro di sé il nero sporco che questo film richiede. Con Jake lo sapevo, ma Hugh è stata una bella sorpresa, visto che raramente l’ho trovato in ruoli così intensi.

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