L’amore bugiardo (2014)

Basato sull’omonimo romanzo di Gillian Flynn, che ha curato anche la sceneggiatura del film, L’amore bugiardo è un altro thriller che si aggiunge al nutrito carnet di David Fincher, il che è già garanzia di ottima fattura. Quasi due ore e mezza di film in cui i personaggi si svelano a poco a poco, mentre la trama compie più di un’inversione di marcia, mescolando passato e presente tramite flashback che aggiungono ogni volta nuovi elementi.

Amy e Nick formano una bellissima coppia, sposati da cinque anni, belli, colti, ammirati e invidiati dagli amici, hanno un lavoro che li soddisfa e li rende più che benestanti. A causa della crisi economica, vengono licenziati entrambi e vedono distrutte le rispettive ambizioni; decidono così di lasciare New York per una piccola cittadina di provincia nel Missouri, dove provano a ricostruirsi una vita semplice, ma il matrimonio ne risente e tra loro cresce l’ostilità.

Lei si riduce a una casalinga annoiata, mentre lui apre un bar che chiama The Bar, il che la dice lunga sul suo entusiasmo e sul livello della sua creatività. Il giorno del quinto anniversario di matrimonio, inizia l’incubo: lui arriva a casa come sempre, ma lei è scomparsa senza lasciare tracce, anzi no, in realtà ne ha lasciate anche troppe per la polizia. In cucina numerose macchie del suo sangue, accuratamente ripulito, in salotto il tavolino rovesciato, che presuppone una colluttazione, e nascosto (si fa per dire) un diario che la polizia non tarderà a ritrovare, e che sembra accusare senza ombra di dubbio il marito.

Di fronte a tutto questo, il povero Nick fatica a comprendere la situazione, e ha un atteggiamento a dir poco indolente. Ben presto la polizia, i vicini, l’opinione pubblica e tutti quelli che stanno a guardare il suo dramma attraverso la televisione (e qui non manca una feroce denuncia del potere dei media), si convinceranno che sia stato lui a uccidere Amy. La verità è un’altra, ben più terribile e allucinante, nella sua follia: ma anche quando tutte le carte in tavola verranno scoperte, ci si rende tristemente conto che a questo gioco non può vincere nessuno.

Perché siamo di fronte a un matrimonio abbellito dall’apparenza tipicamente americana, dalle verità taciute e dalle menzogne dichiarate, dal rimorso per quello che non è stato detto o fatto, o dai troppi tentativi per essere a tutti i costi come l’altro voleva. Nick voleva una moglie raffinata, intellettuale, bella e soprattutto in carriera, sensuale ma mai troppo volgare, tranne che in privato, naturalmente. Lui voleva così tanto questo tipo di donna da non accorgersi di cosa si celasse veramente dietro l’apparenza brillante della moglie.

Il film di Fincher è costruito al contrario: parte infatti dalla sparizione di Amy, per poi svelare pian piano tutti i retroscena del matrimonio attraverso flashback che si fanno via via sempre più inquietanti, e che ci permettono di approfondire la conoscenza dei due protagonisti. Nella prima metà del film siamo di fronte ad un thriller classico, in cui lo spettatore è chiamato a scoprire le ragioni della sparizione di Amy e a provare la colpevolezza di Nick, che fa di tutto per apparire colpevole, o almeno non fa nulla per sembrare innocente e neppure dispiaciuto più di tanto per la sua perdita.

Poi, con un colpo di scena inaspettato e sorprendente, il film cambia del tutto prospettiva, e dopo aver orchestrato un abile gioco di indizi, tra cinismo, pazzia, clamore mediatico e illusioni passionali, il regista cambia completamente le carte in tavola. Nella seconda parte della pellicola si assiste a uno scontro aperto tra verità e menzogna, tra realtà e apparenza, alla rappresentazione, senza più veli, di un amore vizioso e viziato, costruito su un castello di bugie che comincia pian piano a crollare. In un certo senso è questo il momento in cui la storia comincia davvero. Quando marito e moglie si dichiarano guerra ad armi pari, ed è facile capire che solo il più pazzo e amorale dei due potrà vincere.

Il romanzo di Gillian Flynn non era facile da adattare allo schermo, soprattutto per la struttura narrativa e la complessità dei personaggi, ma la sceneggiatura, ricavata dall’autrice stessa, ha brillantemente ottenuto lo scopo. E Fincher dimostra una vera padronanza della tecnica registica, facendo oscillare la vicenda tra dramma, thriller, pulp tarantiniano e commedia introspettiva, tenendo sempre alto un ritmo incalzante che non dà tregua.

Ben Affleck e Rosamund Pike sostengono molto bene la complessità dei due ruoli: lui forse un po’ meno espressivo, ma la sua maschera smorta e insulsa qui si addice perfettamente al personaggio, mentre lei offre un’interpretazione che sarebbe probabilmente piaciuta molto a Hitchcock. Tra i due si inserisce molto bene Neil Patrick Harris, mostrando un inaspettato talento drammatico.

A differenza di altri film del genere, qui non c’è uno studio sulla moralità dei protagonisti. Vengono mostrate diverse sfaccettature isolate, ciascuna delle quali aggiunge una nuova sfumatura al contesto generale del personaggio, che si mescola con quelle precedenti dando vita a un nuovo colore; solo alla fine, nel momento in cui tutte si uniscono, sorprendono lo spettatore mostrando il vero volto dei personaggi e la realtà che si cela sotto l’apparenza. “È il matrimonio” dice Amy a Nick negli ultimi fotogrammi del film. Un finale amaro e davvero senza speranza, ma forse la cosa più realistica di tutto il film.

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