Sindrome cinese (1979)

Un dramma avvincente e teso sui pericoli delle centrali nucleari, in tempi ancora non sospetti. Uscito al cinema 7 anni prima del disastro di Chernobyl, il film cerca di attirare l’attenzione non solo sui pericoli dell’energia nucleare, ma anche sulla politica di insabbiamento da parte dei responsabili, con la complicità dei media compiacenti. In fondo quella del nucleare è un’azienda come le altre, in cui la ricerca del profitto finisce per prevalere su ogni altra considerazione, compresa la sicurezza: quello che il film ci mostra è fino a che punto la logica del guadagno può arrivare a mettere a rischio delle vite umane, e lo fa portandoci dietro le quinte di un reattore nucleare, laddove il pubblico di solito non è ammesso.

Kimberly Wells è un’attraente giornalista, assunta più che altro per il suo aspetto. Costretta a occuparsi di notizie frivole, spesso imbarazzanti e per lo più di nessuna importanza, è in attesa della grande occasione che le permetta di mettere in luce la sua professionalità. Finalmente le viene assegnato un servizio importante sulla centrale nucleare di Ventana, dove si reca insieme ad un cameraman indipendente e a un tecnico del suono. Mentre si trovano sul posto, assistono a un incidente spaventoso che viene immortalato su nastro dall’operatore, Adams, nonostante gli sia stato vietato di riprendere.

Anche se il supervisore responsabile della centrale, Jack Godell, sembra aver tenuto sotto controllo la situazione, Kimberly si rende conto di aver in mano uno scoop e cerca di convincere il suo capo a mandare in onda il filmato. La rete televisiva, però, si rifiuta perché le riprese sono state effettuate senza autorizzazione, e preferisce non avere problemi. Nel frattempo, il supervisore dell’impianto si è convinto che l’impianto non sia sicuro e dopo aver trovato prove di illeciti dell’azienda, cerca disperatamente di fare la cosa giusta. Quando Godell si rende conto che la struttura è effettivamente molto pericolosa, si unisce a Wells e Adams in un tentativo disperato contro la società connivente per rendere nota al pubblico la pericolosità della situazione. Ci riusciranno? Il finale aperto rende questo thriller ancora più inquietante.

Sindrome cinese fa parte delle pellicole di impegno sociale, come Brubaker o Tutti gli uomini del presidente, che andavano di moda in quel periodo, ma aggiunge al tema della corruzione, la denuncia della pericolosità delle centrali nucleari, che allora era al centro di dibattiti e contestazioni in tutto il paese. In realtà, il film si concentra su due storie parallele: da una parte si intravede l’interno del reattore nucleare, dall’altra il lavoro frenetico di chi lavora per i media, ed è interessante vedere come in entrambi gli ambienti siano i soldi a dominare su ogni decisione. Nella centrale nucleare è buona norma dire che tutto è al sicuro, anche se non sempre è così. I lavoratori, consapevoli dell’importanza di mantenere il proprio posto di lavoro, accettano la situazione.

La stazione televisiva non è diversa. La direzione ignora volutamente argomenti moralmente discutibili, e va in crisi quando due giornalisti coraggiosi portano notizie scottanti che possono avere serie conseguenze economiche. Anche se il loro silenzio potrebbe costare un numero spaventoso di vittime. Il dilemma è lo stesso: l’avidità di un’azienda contro la sicurezza dei singoli. Il film esplora anche la complessità dei notiziari dietro le quinte, compreso ciò che accade fino alla trasmissione del telegiornale, e la frenesia dell’ambiente giornalistico è affascinante quasi quanto la potenziale minaccia nucleare. Entra in gioco il potere della stampa, così come la necessità di limitare le informazioni messe a disposizione del pubblico.

Con mezzi apparentemente semplici, il regista Bridges riesce a presentare una storia emozionante, e anche senza costosi effetti speciali aumenta lentamente ma costantemente la tensione man mano che il film procede. Splendida la soluzione di non inserire alcun commento musicale: gli effetti sonori del centro di controllo, il ronzio, gli allarmi e le stampe della telescrivente fanno tutto il lavoro di accompagnamento delle immagini, e lo fanno superbamente bene, tanto che la tensione diventa palpabile. Qualunque colonna sonora, per quanto martellante o ossessiva, sarebbe stata superflua.

Anche i titoli di coda scorrono nel silenzio totale, che ci invita a riflettere. Gli attori sono tutti perfettamente in parte: Jane Fonda nei panni dell’ambiziosa reporter che vuole ripotare notizie vere, invece di storielle banali e preconfezionate, è aggressiva al punto giusto, e Michael Douglas è nel suo elemento come cameraman ribelle e arrabbiato, che non intende prendere ordini da nessuno ed è determinato a scoprire la verità dietro l’incidente a cui ha assistito.

Ma su tutti spicca Jack Lemmon: il film deve gran parte della sua forza allo sviluppo del suo personaggio. Gli scrupoli di Lemmon, che non riesce a convivere con le carenze del reattore nucleare, aumentano progressivamente durante lo svolgersi della storia e ne migliorano la qualità. Ogni preoccupazione è segnata sul suo viso, ogni paura traspare nel suo sguardo. Lemmon ha sempre interpretato personaggi simpatici, ruoli che richiedevano che si mostrasse vulnerabile. In questo film si riscatta, mostrando tutta la forza di un uomo che decide di fare la cosa giusta e di andare fino in fondo, a qualunque costo.

Il cast è costellato anche di attori secondari memorabili, tra cui spicca il veterano Wilford Brimley, con i suoi irrinunciabili baffi: ha un ruolo complesso, ricco di sfumature, e riesce a renderle tutte senza difficoltà, duettando con Lemmon. Gli attori principali che rappresentano la centrale nucleare sono altrettanto perfetti, dal mellifluo responsabile delle pubbliche relazioni, interpretato da James Hampton, al pragmatico direttore dello stabilimento, rappresentato da Scott Brady, fino al peggiore di tutti, Evan McCormack, a cui presta il volto Richard Herd.

Nel complesso il film di Bridges è un thriller di gran classe, che gli eventi reali, accaduti poco dopo la sua uscita, hanno reso fin troppo plausibile. E il film ci lascia con un dubbio che a distanza di 40 anni è ancora quanto mai attuale.

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