Green book (2018)

I fratelli Farrelly sono famosi per commedie irriverenti e spesso demenziali, animate da personaggi grotteschi e con storie volutamente lontane dalla realtà. Il fratello maggiore Peter, per una volta da solista, continua a scommettere sulla commedia, ma questa volta il tono è molto lontano da quello dei film che hanno reso famosa la coppia di registi più politicamente scorretta di Hollywood. Peter firma, infatti, un film agrodolce, una commedia drammatica che alterna momenti di sincera commozione a spunti di un umorismo semplice ma travolgente, e tocca con leggerezza temi come pregiudizio e razzismo. Tuttavia Green book è soprattutto la storia vera dell’amicizia nata per caso tra due persone diversissime, costrette dalle circostanze a una convivenza forzata e a uno sforzo comune di reciproca comprensione.

Siamo nel 1962, negli Stati Uniti, in un periodo caratterizzato da una spietata segregazione razziale. Don Shirley è un famoso pianista afroamericano che deve partire per un tour nell’America del sud, e ha bisogno di un autista che lo accompagni durante il viaggio. Tony Vallelonga, invece, è un italo americano rimasto disoccupato dopo che la discoteca dove lavorava come buttafuori è stata momentaneamente chiusa e, quindi, vive di lavoretti saltuari. Don assume Tony ed è da lì che si dipana il rapporto tra i due, tema centrale del film.

Il green book che dà il titolo al film è una guida che indicava i luoghi in cui i neri potevano soggiornare durante gli spostamenti tra i vari Stati, perché è chiaro che in quell’epoca non tutti gli alberghi o i ristoranti accettavano i neri come clienti. Ed è seguendo questa guida che i due iniziano il loro viaggio. È quasi impossibile guardare Green Book e non ricordare A spasso con Daisy, il film del 1989 in cui però le dinamiche della relazione tra autista e datore di lavoro erano invertite. Mentre là Jessica Tandy era un’anziana signora bianca che assumeva come autista un uomo di colore, interpretato da Morgan Freeman, nel film di Peter Farrelly il nero è il datore di lavoro e questo cambia completamente la prospettiva.

Qui le questioni razziali sono molto più presenti, anche se il regista usa un umorismo leggero e sottile per metterle in evidenza. Durante questo lungo viaggio attraverso il Sud degli Stati Uniti, il rapporto tra il musicista e l’autista inizia a rafforzarsi e, nonostante le differenze iniziali, si crea un’empatia da parte di entrambi con il dolore e le difficoltà dell’altro. Il musicista ha bisogno di protezione e l’autista accetta solo perché ha bisogno di soldi.

All’inizio il pianista non fa nulla per rendersi simpatico: si mostra distaccato, altezzoso, con un vago senso di superiorità che gli viene dall’essere un artista colto, di fronte a un uomo rozzo ed evidentemente ignorante; l’autista, da parte sua, non si è mai posto prima il problema del razzismo, ma quando assiste allo sconforto vissuto dal musicista, a cui viene vietato persino di mangiare in quegli stessi luoghi in cui è chiamato a esibirsi al piano, comincia a realizzare di cosa si tratti.

Tony si rende conto della superiorità culturale di Don, delle sue notevoli doti artistiche, ma capisce anche che il prestigio dei suoi titoli di studio e la venerazione con cui la borghesia bianca lo ascolta quando suona, non gli concedono gli stessi privilegi di cui gode lui, persino quello banalissimo di usare il bagno in casa.  Scopre così che questa realtà non gli piace e non la trova giusta. Attraverso la progressiva consapevolezza di Tony e la sua presa di coscienza, il regista ci mostra il lato più oscuro del razzismo, e lo fa con un’ironia amara.

Ogni volta che Tony apre bocca ci regala una risata (anche grazie al doppiaggio di Pino Insegno), eppure Viggo Mortensen riesce a dare al suo personaggio sufficiente dignità da non diventare una caricatura, e abbastanza integrità da perdonargli anche le affermazioni più politicamente scorrette e gli eccessi di violenza con cui reagisce ai soprusi. In quest’uomo semplice, intento a soddisfare i bisogni più elementari con enormi secchielli di pollo fritto, si fa strada un senso profondo di giustizia sociale. Anche Mahershala Ali esprime la trasformazione di Don quando, lentamente ma inesorabilmente, abbatte le sue difese, e finisce per diventare il centro emotivo della storia, con un breve ma potente monologo in cui sfoga tutta la sua disperazione, e la frustrazione di chi non è accettato dai bianchi per il colore della pelle, ma neppure dai neri perché suona musica “da bianchi”.

Così l’auto su cui i due sono costretti a viaggiare a stretto contatto, diventa il teatro dello scontro tra due estranei che cercano di comprendersi, e finiscono per diventare amici imparando a trascurare le differenze che li dividono, dal colore della pelle all’orientamento sessuale, fino alla classe sociale. Per quanto il primo è ingessato nel suo orgoglio e in una dignità che non intende barattare per nulla al mondo, l’altro conosce solo il linguaggio della violenza, e non esita a usarlo. E mentre queste due anime così diverse si avvicinano sempre di più, modificando lentamente il loro universo e la loro visione della vita, intorno a loro la realtà non cambia e si mostra prepotentemente per quello che è.

Il film è pieno di tutti gli stereotipi più abusati in tema di razzismo, ma è nelle sottigliezze della sceneggiatura che sta la bellezza del film, e nelle sfumature dell’interpretazione dei due protagonisti. La chimica che si crea tra i due attori e che procede per tutto il film, è quello che lo rende straordinario, anche se lo sviluppo della trama può a tratti essere prevedibile.

E anche la regia di Farrelly contribuisce al risultato, perché riesce a trasmettere un messaggio importante con grande umorismo, senza perdere il tono critico, cercando di suscitare nello spettatore la stessa empatia che nasce in Tony. E risvegliare l’empatia in una società che, ancora oggi, promuove il razzismo e l’intolleranza, è un grande risultato.

Altre recensioni del film qui (Il Blog di Tony) e qui (vengonofuoridallefottutepareti).

30 pensieri riguardo “Green book (2018)

  1. Ma grazieeee
    Vedo che anche tu hai apprezzato. La scena con la macchina che si ferma davanti ai campi secondo me è tra le più potenti ma alla fine ne io ne tu l’abbiamo citata!

    Invece è sempre molto interessante leggere articoli diversi sullo stesso film, per vedere gli stili differenti

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  2. L’ho visto al cinema, e probabilmente lo hai apprezzato più di quanto abbia fatto io: ammetto di essere rimasto piuttosto freddo di fronte a Green Book, probabilmente anche perché mi sono saltati all’occhio tutti i luoghi comuni di questo tipo di cinema a cui hai accennato anche tu. Ho trovato poi, sinceramente, sproporzionata l’eco che ha avuto in seguito, con una vittoria a Miglior Film, agli Oscar, che se ci penso ancora non mi va giù. Alla fine l’ho trovato un film “piacevole”, con un messaggio necessario ma non l’ho amato così tanto come il resto del mondo sembra aver fatto – motivo per cui, probabilmente, è solo un problema mio.

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    1. A volte capita che il successo di un film ci risulti inspiegabile. Io ancora devo capire cos’ha trovato l’Academy ne La grande bellezza… Riguardo a Green book, penso che molto del fascino sia dovuto al fatto che è narrata una storia vera, e nel complesso il film ci dà un punto di vista nuovo sul tema del razzismo. Il resto è questione di gusti, che personalmente non discuto mai.

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