Formula per un delitto (2002)

Un giallo originale e intelligente, con un ritmo serrato, sostenuto fino alla fine, una discreta suspense, e un finale imprevedibile fino all’ultimo fotogramma. In realtà non è un vero e proprio giallo, perché i colpevoli sono noti fin dall’inizio, ma piuttosto un thriller psicologico in cui la parte più interessante è il brillante lavoro investigativo che porterà al loro smascheramento. Perché il delitto perfetto, almeno al cinema, non esiste.

Due studenti, figli di famiglie facoltose e assenti, cercano di combattere la noia inventandosi qualcosa da fare: esaltati dalle teorie filosofiche di Nietzsche, e convinti di avere un’intelligenza sopra la norma, decidono di compiere il delitto perfetto. Uccidono così una vittima a caso, senza nessun movente, facendola sembrare l’opera di un maniaco e, non contenti, cercano di addossarne l’omicidio ad un bidello balordo e decisamente meno intelligente di loro, sistemando sulla scena del delitto una serie di indizi, quali peli di moquette e di animali, raccolti nella casa dell’uomo. Sarà una determinata detective, molto più intelligente e scaltra di loro, a intuire il piano e a smascherarli.

Il film, che prende spunto da un caso realmente accaduto nel 1924, non si dilunga sui particolari del delitto, che affiorano qua e là attraverso i numerosi flashback, ma privilegia il ritratto caratteriale dei due protagonisti, studiandone a fondo la psicologia e le interazioni, le ragioni che spingono entrambi al delitto, nonché le influenze reciproche e le differenze di personalità che in vario modo portano al fallimento del diabolico piano. Risulta chiaro fin dall’inizio che uno dei due ha una personalità dominante, mentre l’altro, più debole, ne è succube, ma fino alla fine non si capisce chiaramente chi dei due sia intimamente malvagio e forse anche psicologicamente instabile, e chi invece è semplicemente amorale. Questo scambio continuo di ruoli tra i due assassini è la parte più affascinante del film e i due protagonisti ne interpretano ogni sfumatura in modo molto suggestivo.

L’esecuzione consapevole di un atto malvagio come manifestazione estrema della libertà individuale è un inquietante paradosso filosofico che molti letterati hanno considerato, e anche il cinema non poteva rimanere indenne da questa riflessione. Sono diversi i film che hanno esplorato le motivazioni psicologiche di chi commette un crimine premeditato, con il solo scopo di vivere un’esperienza estrema o per il gusto della sfida. Un illustre antecedente di questa pellicola è sicuramente Nodo alla gola, di Hitchcock, non a caso ispirato allo stesso fatto di cronaca.

La struttura narrativa è identica: lo spettatore sa dall’inizio chi sono i colpevoli, assiste alla lucida follia con cui progettano ed eseguono il delitto, e da quel momento non può che aspettare la loro giusta punizione. Non mancano momenti di vera suspense, soprattutto nella parte finale, ma anche nelle dinamiche tra i due ragazzi, uniti dal piano criminale ma in realtà molto diversi. Purtroppo l’analisi del lato oscuro della natura umana si perde, verso la fine, nel desiderio di fornire colpi di scena imprevisti che diventano ornamenti inutili. Così come la storiella romantica tra i due detective, incaricati di seguire il caso, finisce per mettere in ombra la profonda crisi psicologica vissuta dal personaggio della Bullock. Peccato perché avrebbe potuto arricchire il punto di partenza, creando due trame parallele, e invece il regista rimane in superficie, scegliendo un approccio che strizza l’occhio al pubblico.

Ma al di là del tentativo incompiuto di approfondire le motivazioni dietro a un omicidio senza movente, va riconosciuto che il regista ha svolto nel complesso un lavoro efficace e coinvolgente, che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore grazie alla tensione e all’ambiguità delle relazioni che si instaurano tra i personaggi, e alla semplicità narrativa con cui si arriva alla risoluzione dell’intrigo. Insomma, non ha la classe di Hitchcock, ma il film si lascia guardare. E c’è anche una citazione del maestro: la scena finale sul balcone, ricorda vagamente La donna che visse due volte.

Perfetta la Bullock nel ruolo della detective mascolina e ribelle all’autorità: mette da parte la consueta dolcezza per calarsi nei panni di una donna dura e narcisista che va avanti prendendo a calci tutto e tutti, compreso il suo capo e il nuovo collega. Ma i migliori sono i due giovani protagonisti, su cui spicca un Ryan Gosling ancora acerbo ma notevole, mentre Pitt prelude all’enigmatico protagonista di Funny Games. Il film è anche un’occasione per rivedere il compianto Chris Penn, scomparso troppo presto dalla scena cinematografica. Ben Chaplin c’è ma, come al solito, non lascia traccia.

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