Seduzione mortale (1953)

Un classico del genere, un affascinante noir dalle atmosfere torbide. Il titolo dice già tutto, curiosamente in italiano come in originale (Angel face): c’è una fanciulla, tanto innocente e indifesa all’apparenza, quanto letale nella sostanza, e c’è un giovane, sempliciotto e un po’ ingenuo, come spesso diventano gli uomini in presenza di certe donne, che ne subisce irrimediabilmente il fascino. L’intreccio, di per sé non originalissimo, si avvale di due grandi di Hollywood, qui ancora molto giovani: Robert Mitchum, che qualcuno, non a caso, ha definito l’anima del noir, e un’insolita Jean Simmons nel ruolo della dark lady. Oltre naturalmente alla regia di Otto Preminger che qui sfoggia tutte le sue abilità di messa in scena.

La trama non va svelata, perché se ancora c’è qualcuno che non l’ha visto, dovrebbe davvero correre a recuperarlo, soprattutto se ama le storie intriganti, di amore e passione intrecciati col delitto. A grandi linee basterà dire che il protagonista è un semplice autista di ambulanze, che conduce una vita anonima e noiosa, ma tranquilla, finché non incontra una ricca e bellissima ereditiera viziata, che lo irretisce completamente coinvolgendolo nel suo piano criminoso. Dopo la prima metà della pellicola, però, la vicenda offre un colpo di scena non da poco, con un ribaltamento della situazione a tutto vantaggio dell’ingenuo protagonista, che sembra improvvisamente risvegliarsi dall’incantesimo e vedere la realtà per quello che è. Ma il finale di una storia così non può lasciare scampo a nessuno.

È un film coinvolgente, un noir che seduce letteralmente, appassionante negli sviluppi per il romanticismo sentimentale che si fonde perfettamente con il fascino criminale, dando alla morte l’inevitabile ruolo di protagonista. Ma è affascinante anche per la scelta degli attori, qui entrambi in ruoli per loro inconsueti, eppure tutti e due eccezionali nel sostenerli. Mitchum, emblema hollywoodiano dell’uomo forte, l’avventuriero sciupafemmine, spesso violento, qui si trova a interpretare un uomo debole, che si lascia trascinare in un vortice di passione e follia che lo porterà alla rovina; la Simmons invece, che ha interpretato tante incantevoli figure femminili, contraddistinte da grazia e dolcezza, qui nasconde sotto il faccino angelico un’anima corrotta, ed emana un fascino torbido e impuro, che non può che essere fatale.

E nonostante questo, riesce a creare un nuovo concetto di dark lady: un personaggio complesso e ricco di sfumature, una spietata calcolatrice, ma anche una ragazza sola, vittima di un bisogno inappagato di amore. Preminger dirige il tutto da maestro dando corpo alla vicenda, usando inquadrature ad effetto e giochi di sguardi, per sottolineare la danza macabra dei protagonisti, e riuscendo a maneggiare con cura anche le sedute in tribunale, che risultano tutt’altro che noiose.

Il regista intreccia sapientemente la vicenda immagine dopo immagine, con un bianco e nero da favola, inserendo come un vero tocco da maestro, le malinconiche note suonate al pianoforte dalla protagonista, mentre altrove si consuma la tragedia. Ma è sul finale, uno dei più terribili che Hollywood abbia mai partorito, allucinante, folle e imprevedibile, che Preminger si gioca la sua carta migliore. Chi l’ha visto, non lo dimentica facilmente.

Oggi il film appare un po’ datato, ma è ancora apprezzabilissimo per gli amanti del bianco e nero, e di quel cinema di una volta, privo di volgarità e di facile ostentazione, in cui la seduzione era ancora affidata all’intensità di uno sguardo, e le donne preferivano morire che rinunciare all’amore.

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