Hamlet (2000)

Affascinante e singolare versione della tragedia shakespeariana, ambientata a fine ‘800, con un’insolita Ofelia di colore e un Amleto, una volta tanto, non ossigenato: finalmente c’è del nuovo in Danimarca. Diretto e interpretato da uno splendido Campbell Scott, che si cala nel ruolo di Amleto con sensibilità ed impeto emotivo senza paragoni, il film è fedele al testo di Shakespeare e si avvale di attori molto validi, nonostante provengano quasi tutti da esperienze più televisive che cinematografiche. Del resto il film è stato prodotto per la televisione.

Inevitabile il confronto con le due trasposizioni più recenti, quella di Zeffirelli del ’90 e quella di Branagh del ’96. A differenza della versione di Zeffirelli, che era particolarmente spettacolare, con splendidi paesaggi e maestose scene girate in esterno, qui l’ambientazione è più teatrale, anche perché il film è una produzione Hallmark destinata alla televisione: quasi tutto si svolge all’interno del palazzo, elegante ma molto più spartano e meno sfarzoso di quello luccicante di Branagh, con abiti semplici, dominati dal grigio e dal beige, lontani dagli splendidi costumi medievali di Zeffirelli, e sottolineato da una colonna sonora martellante e ossessiva che nei momenti clou accentua il ritmo drammatico delle battute.

Scott è un Amleto moderno ed efficace, espressivo ma sempre misurato, mai eccessivo, più dignitoso e sensibile dell’irruento Gibson, e un po’ meno ingessato di Branagh. E’ un Amleto in lutto, dall’inizio alla fine, tormentato dal dolore e dal desiderio di vendetta, e costantemente accompagnato dalla spettrale presenza del padre, che non si limita all’apparizione iniziale, ma compare più volte fino alla fine, desolato spettatore dell’eccidio conclusivo.

Particolarmente originale rispetto alle versioni precedenti è la scena in cui il fantasma del padre rivela ad Amleto il modo in cui è stato ucciso: mentre Branagh mostrava l’omicidio con un flashback, Scott rivive fisicamente la sofferenza del padre, urlando fino a lacerare l’aria con le grida, mentre vede il sangue scorrere dal suo orecchio, e infine sviene. La sua visione non è qualcosa a cui assiste, ma che vive in prima persona, quasi una possessione. L’Amleto di Scott è malinconico ma anche cinico, debole e insicuro, ma anche spietato giudice di chiunque intorno a lui. E’ l’unica voce di verità in un luogo avvelenato dalle bugie.

Lisa Gay Hamilton incarna con molta naturalezza la dolcezza e l’ingenuità di una giovane Ofelia innamorata, ed esprime la sua tragica follia in modo realistico ma molto contenuto, mai sopra le righe, più vicina alla grazia della Bonham Carter che agli eccessi sguaiati della Winslet. La scena della pazzia, dopo la morte del padre, arriva dritto al cuore ed è straziante.

Sheridan è un po’ tiepido nell’interpretazione del re usurpatore, rispetto alla malvagità infida di Alan Bates e alla sfrontata arroganza di Derek Jacobi, mentre Blair Brown rappresenta più l’amore materno che la lussuria di un’adultera: forse le mancano il fascino della Christie e la sensualità della Close, ma il suo pentimento sembra più sincero e commuove.

Nella scena finale, Scott rappresenta la morte del protagonista in maniera estremamente naturale, composta, nonostante la sofferenza fisica sia tangibile, come pure il dolore della separazione; a differenza di Branagh, non mostra più rabbia nelle parole e nei gesti, ma solo rassegnazione. E’ sicuramente la versione meno conosciuta delle tre, semplice ed essenziale, ma rimane un ottimo adattamento della tragedia originale. Splendido e da vedere.

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